CANAPA INDUSTRIALE

Lo scenario post Sezioni Unite. La lecita commerciabilità della cannabis sativa e dei derivati rappresenta una constatazione in assenza di espressi divieti e nel rispetto delle previsioni comunitarie.  Normative nazionali repressive passibili di censura da parte della UE. Il caso Hammarstein

La tanto attesa pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla commerciabilità della cd. cannabis light, al di là del clamore mediatico e delle strumentalizzazioni politiche nell’immediatezza della diffusione dell’informativa provvisoria, in realtà al confronto con la prassi sembra fornire indicazioni di segno diametralmente opposto.

A seguito della sentenza si è infatti assistito ad un fortissimo incremento dei controlli e dei sequestri che in molti casi hanno assunto i più duri contorni repressivi della lotta al narcotraffico che, in alcuni casi, hanno sfiorato veramente il ridicolo.

Ma al di là di tali considerazioni tali interventi repressivi sono poi passati al vaglio dei Tribunali del Riesame, i quali si sono pronunciati in maniera piuttosto chiara.

Rilevato che i prodotti a base di cannabis sativa L. presentavano valori di THC inferiori allo 0,5% hanno disposto il dissequestro dei medesimi ritenendoli  privi di efficacia drogante.

E del resto questo è un orientamento consolidato sin dal 1989 con la sentenza n. 16648 del 20.10.1989 poi ripresa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28605/2009.

Quindi che scenario emerge nella prassi dopo la tanto attesa sentenza del 30.05.2019?

Emerge uno scenario in cui appare a questo punto evidente e fuori discussione che non costituisce reato la commercializzazione al pubblico di prodotti derivati dalla coltivazione di cannabis sativa L. con valori di THC inferiori allo 0,5%.

Addirittura il Tribunale di Genova si è spinto oltre rilevando come si necessario – prima di disporre il sequestro – prelevare campioni e sottoporli ad esame tossicologico. Solo dopo che tali controlli avranno dato esito positivo si potrà procedere al sequestro ovviamente a fini preventivi del reato che a quel punto – e solo a quel punto – sarebbe stato compiuto.

Questa tesi era peraltro già sostenuta dal sottoscritto; v. G. Bulleri, Controlli sulla cannabis sativa L.: raccordare previsione normativa e prassi applicativa  in Altelex.com, 15/02/2019.  .

Quindi ecco che siamo di fronte ad una soglia chiara per quanto riguarda le fasi post raccolta: oltre lo 0,5% scatta l’applicazione del DPR 309/1990, ma soltanto in tali ipotesi. Sotto tale soglia NON è reato.

Quindi appare evidente che una volta esclusa la rilevanza penale nel nostro ordinamento non sussistano ulteriori divieti alla commerciabilità di tali prodotti.

Non sussistono limiti da parte della L. n. 242/2016 in quanto, anche volendo interpretare in maniera tassativa l’elenco di cui all’art. 2, appare di tutta evidenza come in tale elenco si apra un catalogo piuttosto ampio di prodotti che si possono essere ottenere con la cannabis sativa L. coltivata.

E sul punto il carattere esaustivo di tale elenco pare cozzare con le stesse previsioni ivi contenute dal momento che la L. n. 242/2016 è una legge che si pone il fine precipuo di incentivare lo sviluppo di una filiera produttiva ed incentivando la ricerca e lo sviluppo scientifico. Ricerca e sviluppo che intrinsecamente sono volte a realizzare prodotti innovativi che ancora non esistono sul mercato. Interpretare un elenco che contempla tale destinazione di ricerca come tassativa appare un’antitesi logica difficilmente superabile.

Ma soprattutto assolutamente leciti sono i prodotti a base di cannabis frutto della filiera florovivaistica e, quindi, ipso facto anche piante e fiori ornamentali.

Non sussistono limiti neppure sotto un profilo maggiormente tecnico-amministrativo ove i provvedimenti già resi dalla Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato, dalla CCIAA e dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 14017/2019, hanno escluso ogni profilo di ingannevolezza per il consumatore in presenza di etichettature conformi alle previsioni di cui all’art. 6 del Codice del Consumo.

Quindi “purtroppo” dovremo rassegnarci a considerare legale la vendita di cannabis light in quanto semplicemente non vietata da nessuna norma vigente dal nostro ordinamento.

Anzi dopo la sentenza delle Sezioni Unite, gli strumenti ed i metodi preventivi o repressivi di cui al DPR 309/1990 NON possono e non devono essere applicati in caso di valori non superiori allo 0,6% nelle coltivazioni ed allo 0,5% nei prodotti finiti, in quanto trattasi di condotte non costituenti reato.

Con buona pace di ogni sofismo circa l’applicazione del T.U. Stupefacenti.

Ma vi è di più. Il punto centrale della vicenda è che tale scenario non si potrebbe configurare diversamente in virtù della vigente normativa comunitaria.

Occorre infatti ricordare che, per definizione comunitaria, la canapa ottenuta da varietà certificate è un prodotto agricolo lecito sino alla soglia dello 0,2% di THC. Poiché la normativa comunitaria parla di canapa “greggia” in generale non possono sussistere all’interno di tale perimetro (varietà certificate con THC inferiore allo 0,2%) dubbi di sorta con la normativa sugli stupefacenti né limitazioni a parti della pianta.

Tali limitazioni – caso mai – possono ben sussistere nelle normative di dettaglio per ciò che concerne specifiche destinazioni (ad esempio quella alimentare, basti pensare alle questioni attinenti al Novel Food).

La situazione di prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale si sta facendo strada anche in Francia ove la normativa nazionale, con un Decreto del 1990, limita l’uso della canapa ai soli semi e fibre determinando un ostacolo alla libera circolazione delle merci e, conseguentemente, un rischio di censura da parte della UE al pari di quanto subito dalla legislazione svedese (v.. R. Colson, Maitre de conferences a l’Université de Nantes; membre du laboratoire DCS – UMR CNRS 6297, L’extension du domaine du chanvre legal, article paru dans le Recueil Dalloz (2018, 1445.1446)

La soluzione all’arcano ancora una volta sta in qualcosa di già discusso e valutato.

La Corte di Giustizia Europea, con la decisione n. 462/01 (caso Hammarstein) ha rilevato, da un lato, che i rischi per la salute umana determinati dall’uso di stupefacenti sono stati presi nella dovuta considerazione dal legislatore europeo e, dall’altro, che  i regolamenti disciplinanti l’organizzazione comune del mercato nel settore della canapa “devono essere interpretati nel senso che sono contrari ad una legislazione nazionale che ha per effetto di vietare la coltura e la detenzione della canapa industriale contemplati dai predetti regolamenti”.

Ciò determina una plausibile inibizione de facto di ogni normativa nazionale contrastante con le disposizioni comunitarie in materia di canapa industriale in quanto potenzialmente dannosa per il mercato economico comune e per la libertà di iniziativa economica privata.

Stante quanto sopra non si può che giungere ad un’amara riflessione. Il problema non è in realtà di tipo giuridico o normativo ove le questioni attinenti canapa industriale erano in buona parte stati valutati e decisi quasi 20 anni orsono dalle Istituzioni competenti.

In realtà il problema è di tipo socio-politico ove si sono sviluppate istanze revisionistiche con la riproposizione di teorie proibizioniste che già 20 anni orsono risultavano antiquate e retrograde.

E tutto questo mentre nel resto del Mondo civile (Nord America in primis) si sta invece andando nella direzione opposta della legalizzazione con la quotazione in borsa delle società di cannabis.

Oltre tutto ciò sta accadendo proprio quando l’OMS, la massima autorità sanitaria mondiale, ha proposto il depennamento della cannabis dalle sostanze dannose.

Quindi non servono altre leggi, serve logica, buon senso, servono interpretazioni liberali delle norme esistenti, serve il coraggio da parte dei politici, dei magistrati, della società civile, di cogliere ed affermare quei concetti basilari di un ordinamento democratico e liberale.

Per fare ciò, occorre maggiore preparazione tecnica da parte degli operatori del settore. Occorre alzare il livello delle competenze e del dibattito, occorre – se necessario – portare tali legittime istanze dinanzi alla Corte Costituzionale e dinanzi alla Corte di Giustizia Europea per fronteggiare nelle sedi e nelle forme rituali la deriva oscurantista e sovranista che sta riportando indietro le lancette del tempo negando libertà fondamentali dell’individuo moderno: la libertà individuale e la libertà di iniziativa economica privata.

A livello nazionale continua comunque a rimanere auspicabile, quantomeno sul piano dell’opportunità, un intervento chiarificatore del legislatore sul che possa definire alcune destinazioni di utilizzo affinchè la filiera si possa finalmente evolvere, affrancandosi da destinazioni “tecniche”, e svilupparsi (come peraltro previsto dalla legge) con nuovi prodotti con destinazioni chiare e rispettose delle normative di settore vigenti con particolare riferimento a tutto ciò che è finalizzato ad un consumo umano.

Le leggi di riferimento, peraltro, già esistono a livello comunitario e nazionale.

Sarebbe sufficiente valutare il fenomeno con logica e cognizione di causa per dissipare ogni equivoco, ma purtroppo, sul punto, le richieste del settore continuano ad essere ignorate dalla politica che, evidentemente, preferisce trattare la materia per fini propagandistici (in un senso o nell’altro), dialogando con interlocutori improvvisati, anziché affrontare un percorso di seria regolamentazione corretto sotto il profilo tecnico (sia sul piano giuridico che scientifico) e rispettoso delle dovute forme istituzionali e del principio di gerarchia delle fonti del diritto.